Il vino delle nozze
Gv 2,1-12 – II domenica dell’ordinario – (19 gennaio 2025)
“Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale”; quasi interrompendo il racconto è indicata la presenza delle anfore e la loro descrizione è minuziosa: sono sei, fatte di pietra, destinate alla purificazione rituale, ciascuna capace di contenere all’incirca un centinaio di litri e per questo inamovibili. Queste enormi anfore che l’evangelista piazza a metà di questa pagina evangelica, stanno idealmente al centro della sala del banchetto e presiedono le nozze simbolo biblico dell’alleanza.
Le anfore sono sei, il numero dell’imperfezione e dell’incompletezza che attende la perfezione, la totalità. Le sei anfore sono simbolo dell’inefficacia e dell’imperfezione non della Legge mosaica in sé, contro la quale Gesù non andrà mai contro, ma contro quell’interpretazione legalistica, moralistica, rigida e a spesso intransigente. Quell’applicazione della Legge mosaica
operata dagli esperti e le autorità religiose contemporanee di Gesù era incapace di realizzare la piena comunione tra l’umanità e Dio. Alle nozze di Cana, figura delle nozze tra il Signore e Israele, è venuto a mancare il vino dell’amore e Gesù, il nuovo Sposo, con il suo primo segno annuncia la nuova alleanza, il superamento della Legge antica per offrire l’assaggio del suo vino.
Le anfore sono di pietra e in esse l’evangelista Giovanni rappresenta la Legge di Mosè. Di pietra è la Legge, di cui si dice “tavole di pietra scritte dalla dito di Dio” (Es 31,18). Per Ezechiele, alla Legge di pietra corrisponde un cuore di pietra, senza amore, rispetto al quale il profeta annuncia un cuore nuovo “toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez36,26).
Lo scopo delle giare è la purificazione dei giudei, e la purificazione è una nozione che domina la Legge antica che plasmava una relazione incompleta e debole con Dio. Le norme legali creavano una coscienza di impurità, un’ossessione di purità sempre bisognosa di ritualità ripetitive e ossessive. Spesso, i giusti che si ritengono puri e irreprensibili di fronte alla Legge ma non sanno cos’è l’amore. Ridotta alla durezza di una pietra, al solo criterio di purità o impurità, la Legge di Dio è trasformata in ostacolo, impedimento, spegne la gioia e il desiderio che abita il cuore dell’uomo ed è questo che fa mancare il vino alle nozze di Cana. “Non hanno più vino” dice Maria, figura di Sion, dell’Israele fedele che si rivolge a Gesù: il vino è finito perché il popolo obbedisce passivamente e si sottomette a quelle norme dalla Legge che gli sono imposte dei capi. “Dio mandò il Figlio suo … nato sotto la Legge … per riscattare quanti che erano sotto la Legge”, dirà l’Apostolo (Gal 4,4). Il vino è finito perché la Legge di Dio è incapace di dare vita piena, vita salvata, cioè una vita viva degna di essere vissuta.
Il “vino buono” di Cana è il simbolo per eccellenza dell’amore, della gioia e dell’euforia prodotta dall’esperienza dell’amore. È simbolo dell’eccedenza della vita, della vita in abbondanza portata dal Messia Gesù. Le nozze a Cana di Galilea, in cui né lo sposo né la sposa hanno nome e voce, sono dunque figura dell’antica alleanza rispetto alla quale Gesù è lo Sposo escatologico che ha dato in abbondanza il vino buono degli ultimi tempi, i tempi messianici. Il vino pigiato sulla croce, secondo l’immagine patristica, che celebra la nuova ed eterna alleanza. Gesù trasforma l’acqua rituale usata per le abluzioni in “vino buono” con quale celebrare l’amore, a significare che la pienezza della rivelazione viene ora dal Vangelo, dalle parole di Gesù, di cui il vino è simbolo. L’attesa escatologica si compie e “beati gli invitati al banche di nozze dell’Agnello”.
Goffredo Boselli