Morire insieme e vivere insieme
Gv 6,37-40 – Commemorazione di tutti i fedeli defunti – 2 novembre 2024
Confessata la fede nella comunione dei santi, il giorno dopo confessiamo la fede nella comunione con tutti i morti. La santità e la morte le celebriamo come un unico mistero, un mistero di comunione. Il mistero grande del “ad commoriendum et ad convivendun” (2Cor 7,3) perché tanto la santità pienezza della vita, quanto la morte il venir meno della vita, noi credenti siamo chiamati a convertirle in realtà di comunione, in esperienze di comunione. Santità e morte sono veri e propri esercizi di comunione, quell’ininterrotta fatica della comunione che ci accompagna dal nascere al morire.
Questa fatica della comunione è la fatica di chi, da quando nasce alla vita, deve convivere con la morte in tutte le sue forme. Perché la morte nasce con noi quando nasciamo.
Viene al mondo ogni volta che un essere vivente viene all’esistenza, così che ogni vivente convive con la sua morte. Per questo, il memento dei morti che celebriamo non può che essere anche memento mori. Memoria, certo, del dover morire, ma memoria anche del dover convivere con la morte. Convivere con la dura realtà della nostra morte e di quella degli altri. Persino la morte di tutti i viventi con i quali viviamo: gli animali, le piante e ogni creatura in cui c’è un alito di vita. La vita con-vive con la morte, e coloro con i quali con-viviamo noi anche con-moriamo. Questo significa che la sola realtà che ci resta di coloro che ci hanno preceduto nella morte è la comunione che abbiamo vissuto con loro. Ciò che resta è quell’inesprimibile esperienza del vivere ancora insieme che lega noi che siamo vivi con chi è morto. Questa è la comunione più forte della morte e insieme speranza di una comunione un giorno ritrovata e rinnovata per sempre.
Oggi celebriamo la morte come mistero di comunione, nel momento stesso in cui umanamente esperimentiamo la morte come la più radicale contraddizione a ogni comunione.
Ma lo facciamo per una sola ragione, perché nell’eucaristia noi annunciamo la morte del Signore (1Cor 11,26). Non la realtà in sé della morte come annuncio, ma la morte di un uomo, Gesù di Nazaret, come annuncio, ossia come messaggio, come buona notizia. La sua morte è oggetto della nostra fede, e non vi può essere autentica proclamazione della risurrezione di Cristo senza annuncio della sua morte.
Oggi celebriamo la morte come mistero di comunione, perché è così che il Signore ha vissuta la sua. Le poche parole che Gesù ha detto sulla morte sono sempre una promessa di comunione eterna: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”. È anche l’apostolo Paolo annuncia una comunione più forte della morte: “Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti”. Invano cercheremo nei vangeli un insegnamento di Gesù sul senso della morte. Nei vangeli traviamo invece i racconti di come Gesù ha vissuto la sua morte, una morte nella quale leggere il cuore dei vangeli.
Fare, come Gesù, della nostra morte un atto di comunione, significa riconoscere che la vita non ci appartiene, che è un dono che abbiamo ricevuto e che possiamo trasformare in offerta unita a quella di Cristo, abbandono fiducioso nelle mani del Padre. Fare memoria dei nostri morti e pregare per loro è ricordare il dono che ci hanno fatto della loro vita. La vita è il vero dono per sempre che possiamo fare agli altri. L’unico debito che noi cristiani abbiamo verso tutti gli uomini è annunciare la morte del Signore, finché egli venga.
Goffredo Boselli