Bere al calice di Cristo
Mc 10,35-45 – XXIX domenica dell’ordinario – (20 ottobre 2024)
Questa pagina evangelica ci svela impietosamente l’abissale distanza del cuore del discepolo dal cuore del suo Signore. Da tanto tempo Giacomo e Giovanni vivono con Gesù, lo hanno ascoltato, lo hanno conosciuto, sanno qual è il suo pensiero e quali i suoi sentimenti, e tuttavia il loro cuore è ancora lontano da lui. Eppure, obbedendo prontamente alla chiamata di Gesù avevano lasciato tutto, “ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro di lui” (M 1,20). Ma ora, i “figli di Zebedeo” – così li chiama ancora maliziosamente l’evangelista, quasi a significare un passato che non passa, un essere restati figli del loro padre, un legame che impedisce di accedere alla libertà –, lasciano emergere ciò che il loro cuore ha accumulato lungo il cammino, nel tempo vissuto con Gesù: la volontà di primeggiare, di dare visibilità alla propria affermazione, di avere una ricompensa e di godere di una gloria tutta terrena.
Dopo l’annuncio drammatico della propria morte che Gesù ha fatto per la terza volta, ci si attendeva un’altra reazione da parte dei discepoli più vicini a Gesù. Invece le loro preoccupazioni sono identiche a quelle dopo il secondo annuncio: “avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Mc 9,33). Niente da fare, il problema non è scomparso, le illusioni non si sono dissipate, i sintomi si aggravano.
È così anche per noi, quale che sia l’idolo che si istalla nel nostro cuore durante il cammino di una vita alla sequela del Signore come cristiani. È Gesù allora a ricordare a noi, come ai figli di Zebedeo, che la sua promessa è un calice da bere fino infondo, un’immersione in cui sprofondare, in altre parole una morte come la sua da accettare. Perché questo è il cammino di Colui che è “venuto per servire e non per essere servito”, per essere servo e dare la vita. Tutto qui, niente di più. È questa memoria della radicale semplicità del Vangelo che può liberare il cuore dalle illusioni degli onori e delle ricompense, dai fardelli della nostalgia e della paura, e far nascere naturalmente quella dimenticanza di sé, quell’oblio dell’io che solo è salvifico. Memoria di una parola di Gesù già udita dai due fratelli: “chi vuole salvare la propria vita, la perderà” (Mc 8,35).
Sì, nel cammino dietro a Gesù emergono presunzioni e pretese, paure per il futuro e angosce di fronte all’evidenza per la pochezza della propria vita. Allora, quello che dovrebbe essere un cammino di fede diventa luogo di pretese, occasione di confronto, competizione, giudizio. Quello che dovrebbe essere un cammino fatto insieme diventa sfogo di individualismi.
La comunità di povere persone che seguono Gesù conosce tutto questo e le nostre comunità, la chiesa, e in fondo noi stessi, non possiamo dirci certo migliori di Giacomo e Giovanni. Ma tutti possiamo tenere nel cuore la parola di Gesù che fonda la nostra fede e con essa la vita fraterna di noi discepoli del Signore: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Goffredo Boselli