Il Messia bambino
Mc 9,30-37 – XXV domenica dell’ordinario – (22 settembre 2024)
Come a Cesarea di Filippo, Gesù ha talvolta cose difficili da insegnare ai suoi discepoli di allora come di oggi. Allora procede come un buon maestro: attende il momento opportuno, riprende pazientemente e approfondisce il suo insegnamento. Camminiamo anche noi con lui e lasciamoci interrogare da lui. L’insegnamento di Gesù inizia con un’affermazione che provoca uno shock nei discepoli, come una cattiva notizia che paralizza e lascia senza parole. Gesù condivide per la seconda volta un a notizia sconcertante: “Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”.
I discepoli rimangono in silenzio, hanno persino paura di fare domande. Fare una domanda significherebbe riconoscere che le parole di Gesù hanno un significato e che questa tragica fine è possibile. Per loro era meglio tacere, seppellire queste parole insopportabili, sviare la conversazione e andare avanti. Gesù è stato delicato: non ha insistito, ha rispettato il loro ritmo, ha lasciato che parlassero di altre cose tra di loro. Si fa da parte, continuando a
camminare con loro ma da lontano. Permette ai discepoli di relazionarsi tra loro senza di Lui, di entrare nella loro logica di confronto: “Chi è il più grande?” In questo modo, rivela ciò che c’è nel loro cuore e che non sospettavano nemmeno: una sete di potere di cui forse neppure erano consapevoli.
Poi, nell’intimità di una casa, Gesù pone loro una domanda rispettosa: “Di che cosa stavate discutendo lungo la strada? Ed essi tacevano”. Il loro silenzio li imprigiona, così come i silenzi della Chiesa e all'interno della Chiesa ancora oggi favoriscono poteri e comportamenti sbagliati. Di cosa non osiamo parlare quando condividiamo lo stesso cammino di fede nella Chiesa? Di che cosa ci vergogniamo di discutere alla presenza di Cristo? Il potere, il denaro, la sessualità, la giustizia…? Gesù disse ai suoi discepoli: “Il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini”, e lo ripete. Ci sono quindi due cammini opposti: quello di Cristo in cammino per donarsi fino alla fine, e quella del mondo, che cerca il potere e l’onore, i propri obiettivi e i propri successi. Tra i due ci sono i discepoli, che camminano fisicamente dietro a Cristo ma che, come noi, hanno il cuore che si allontana regolarmente da lui.
I discepoli non dimostrano di non avere ancora la libertà di parlare in presenza di Gesù di ciò che li preoccupava. Si vergognano di sé stessi, di ciò che sentono e di ciò che pensano. È come se la morte impensabile del Maestro risvegliasse e manifestasse la loro volontà di potere, come se la paura della morte, di Gesù e la loro, li tenesse nella schiavitù di una mortale conquista del potere. Nel cuore dell’uomo la paura della morte e la sete di potere che aliena la libertà sono sempre collegate. Il potere come è antidoto alla morte.
Dal momento che un insegnamento a parole – “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo…” – non bastava, Cristo compie un gesto simbolico: prende un bambino, lo pone in mezzo e lo abbraccia dicendo: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome accoglie me”. il bambino è l’impotenza messa di fronte ai potenti, per questo il più piccolo è messo al centro di chi vuol essere il più grande. Nella scala sociale del tempo, i bambini erano gli ultimi, i senza diritti civili e religiosi. Nella logica del Vangelo il più grande è chi sa accogliere gli ultimi.
Saper accogliere l’annuncio della morte di Gesù, il Messia crocifisso è come sapere accogliere l’impotenza inerme, la povertà e la piccolezza di un bambino.
Goffredo Boselli