“Sono proprio io!”
Lc 24,35-48 – III domenica dopo Pasqua (14 aprile 2024)
“Gesù in persona” viene tra i suoi, vale a dire Gesù lui, Gesù stesso è lì presente in mezzo e non un’idea, non un concetto o un’astrazione e tantomeno uno spirito, ma lui stesso con i suoi tratti unici e irripetibili. Per questo il Risorto chiede di essere toccato: “Sono proprio io! Toccatemi e guardatemi”. Faremmo torto al senso del Vangelo se congedassimo troppo sbrigativamente questa richiesta del Risorto come una mera prova della realtà della sua risurrezione dai morti. Non umiliano il Vangelo riducendolo a scipita apologetica cristiana. E neppure, con sottile scetticismo, possiamo leggere questo Vangelo in modo metaforico o allegorico, aggirando la carne del Risorto e facendone un puro spirito. Per questo il Risorto stesso dice: “Uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho”.
Chiedendo di essere toccato, Gesù Risorto rivela agli Undici che confessare la sua risurrezione dai morti non è convincersi di un’idea o aderire a un’ideale. Il Risorto non lo si incontra sui libri ma stando nel mezzo della comunità reale, là dove egli viene in “carne e ossa” e domanda di essere toccato, palpato. Se la realtà è superiore all’idea, la carne è il sacramento del reale. Da qui l’invito “guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!”. Come ogni corpo porta in sé le tracce della vita che ha vissuto, così il corpo del Risorto porta iscritta in sé la vita di Gesù. Il corpo del Risorto è memoria vivente, perché le sue mani e i suoi piedi portano i segni della sua reale storia di carne. Così, toccare la carne del Risorto è una condizione per giungere alla fede pasquale, per gli Undici riuniti nella camera alta come per noi riuniti nelle nostre assemblee eucaristiche.
Ma come toccare oggi la carne del Risorto, dato che senza contatto non c’è fede pasquale reale, ma solo ideologia? Chiedendo di essere toccato e a guardato, il Risorto ricorda ai credenti in lui di ogni generazione che non vi è altra possibile via per giungere alla fede pasquale che non passi per il contatto vivo con la sua carne, vale a dire l’unicità della sua persona, la nudità del suo essere umano, la concretezza della sua vita, la realtà del suo vissuto. Toccare la carne del Risorto significa per noi creare con la persona di Gesù una relazione vera, concreta, fattiva, amorosa: dà vita a vita, da carne a carne che è il contatto umano più reale possibile. Toccare la carne del Risorto significa “rifugiarsi nei Vangeli come nella carne di Cristo”, secondo la bella espressione di Ignazio d’Antiochia, per fare nostro quel suo sentire, per abitare i suoi pensieri, ascoltare la sua parola, discernere il senso dei gesti da lui compiuti in quelli che la Lettera agli Ebrei chiama “i giorni della sua carne” (Eb 5,7). Giorni nei quali scorre la linfa di una vita più forte della morte.
“Avete qui qualcosa da mangiare?”. Nello stare a tavola con i discepoli e nel mangiare di nuovo con loro si manifesta quel “Gesù in persona”, quel “sono proprio io” di Gesù risorto, cioè quel tratto distintivo della sua personalità ospitale, conviviale, gioiosa che era il suo modo di stare in mezzo a loro e alla gente. Il Risorto mangia con i suoi discepoli non solo per provare che lui è davvero lì, ma per dire che quella comunione di tavola, quella quotidiana convivialità attraverso la quale per anni Gesù ha creato una nuova comunità durante la sua vita, continua a viverla con i suoi discepoli anche nella sua vita dopo la risurrezione e continua a farlo per noi oggi credenti in lui, in una profonda prossimità di tavola. Solo chi non evade la carne di Gesù vive nello spirito del Risorto.
Goffredo Boselli