Addomesticare Gesù
Mc 6,1-6 – XIV domenica dell’ordinario – (7 luglio 2024)
Gesù insegna nella sinagoga di Nazaret, la sua patria, e le persone presenti sono stupiti per l’alta qualità del suo insegnamento. Nulla tuttavia è detto del contenuto della predicazione, perché ciò che sarà decisivo è l’effetto, la reazione che essa suscita. Quelli che lo ascoltano sono positivamente impressionati, così che la sorpresa e l’ammirazione senza riserve sono i primi sentimenti che la parola di Gesù suscita nei suoi concittadini. Ma essa fa nascere in loro due tipi di domande. Anzitutto da dove gli vengono tanta sapienza e la potenza che gli fa compiere prodigi. Le altre domande riguardano invece le origini di Gesù, la sua identità e le sue radici: “Non è costui l’artigiano, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo? … e le sue sorelle non stanno qui da noi?”. Ciò che fa problema agli abitanti di Nazaret è la relazione tra la sorprendente sapienza di Gesù e l’umiltà delle sue origini. Come se dicessero: “Gesù è uno di noi, uno come noi, è cresciuto in mezzo a noi, la sua famiglia la consociamo tutti. Chi meglio di noi può sapere chi è Gesù?”. Ma in base a queste categorie, che sono pregiudizi e preclusioni, Gesù non poteva essere conosciuto in verità e il suo mistero resta impenetrabile. L’iniziale stupore si trasforma rapidamente in scandalo, lo scandalo che Gesù stesso sa bene di essere, in fondo lo scandalo dell’incarnazione di Dio. Lo scandalo è un ostacolo alla fede, qualcosa che con credibili ragioni impedisce di credere.
“Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e a casa sua»”. Gesù non li affronta direttamente, ma citando loro un proverbio costata lo scontro permanente e irriducibile tra la coscienza profetica e la coscienza umana. Non riportando, come in altre situazioni cruciali, con quale sentimento interiore Gesù enuncia questa massima – se con tristezza, stupore o indignazione –, l’evangelista Marco sembra suggerire che Gesù si limita soltanto a prendere atto della dura verità. Un profeta accolto, lodato e celebrato dalla sua gente non è un profeta. Nella sua patria, senza eccezione, accade anche a Gesù ciò che avviene a ogni profeta: essere átimos cioè disprezzato, umiliato, screditato. “Sine honore” rende la Vulgata. Anche nella grecità classica átimos era l’uomo senza onore e senza valore. Sì, in tutti i tempi agli occhi del mondo il profeta è l’uomo senza alcun valore, da disprezzare e umiliare.
Per l’incredulità dei cittadini di Nazaret nei suoi confronti, Gesù non può fare alcuna opera potente, a dire che il potere di Gesù non è un potere assoluto ma è condizionato dalla fede di chi lo riconosce e ha fiducia in lui. L’incredulità è l’unico grosso ostacolo che Gesù non riesce a superare: calma le tempeste, scaccia i demoni, vince il male, rialza la fanciulla morta, ma è bloccato dall’incredulità rigida e granitica che trova nella sua patria, tra la sua gente.
Non è mai stato facile riconoscere Gesù, per i suoi contemporanei come per gli uomini di ogni epoca. Questa pagina del Vangelo è un monito per noi credenti che riteniamo di conoscere Gesù Cristo a priori. È la troppa familiarità che ha impedito a gli abitanti di Nazaret di credere in lui, e oggi come allora può accadere che più si presume di conoscerlo più ci si preclude la possibilità di sapere chi è veramente Gesù, giungendo, anche inconsapevolmente, a manipolare, fino a falsare la sua identità. L’incredulità altro non è che l’incapacità di una conoscenza vera del misterodi Cristo.
Ha scritto Ernesto Balducci: “È tutta la vita che rifletto sul mistero di Gesù e sono sempre più convinto che il cristianesimo in cui siamo sia come un immenso e interminabile tentativo di addomesticare Gesù”.
Goffredo Boselli