“Io depongo la mia vita”
Gv 10,11-18 – IV domenica dopo Pasqua (21 aprile 2024)
“Io sono il buon pastore”, è il mistero della presentazione che di Gesù fa di sé stesso, un mistero che si completa e che giunge a pienezza in una sorta di conversazione con noi. “Io sono”, un vero e proprio capolettera delle Scritture sante, fino a giungere al quarto vangelo dove l’Io sono del roveto ardente (Es 3,14) è come rivestito di tutti gli attributi che seguono: la luce, il pane, la vite, la porta, il pastore. Gesù non si attribuisce titoli onorifici e mondani di chi ha conseguito una posizione di onore, ma si identifica con delle creature essenziali, si attribuisce le realtà più elementari a significare la sua volontà di mettere radicalmente in comune la sua esistenza.
Il tratto specifico che caratterizza il suo essere il pastore buono è quello di “dare la vita per le pecore”. Il verbo (tìthemi), utilizzato ben quattro volte nel nostro brano, significa alla lettera “porre”, “deporre” “mettere”, “esporre”. Questo verbo è esattamente lo stesso che designerà il gesto compiuto da Gesù prima di lavare i piedi ai discepoli: “Sì alzò da tavola, depose (tìthesin) le vesti” (Gv 13,4). Il buon pastore riprende la sua vita, (Gv 10,17-18) come riprende le sue vesti (Gv 13,12). In fondo, la semplicità del gesto di svestirsi e rivestiti è il segno della naturalezza e della spontaneità di deporre la vita e riprenderla di nuovo. Del resto, l’Apostolo confessa che il Figlio di Dio “ha spogliato sé stesso” (Fil 2,7) e si è rivestito della vita umana come fosse un abito. Per questo nel vangelo secondo Giovanni Gesù può affermare con forza: “Nessuno mi toglie la vita: io la depongo da me stesso. Ho il potere di
deporla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18). È questo che fa buono (bello) il suo essere pastore, ed è ciò che il Padre ama di lui: “Per questo il Padre mi ama perché io depongo la mia vita”.
Mentre noi umani siamo portati più o meno inconsciamente a tenerci stretta la nostra vita illudendoci di possederla, Gesù la depone per noi sue pecore, come se non gli appartenesse, come se l’essenza della sua vita fosse quella di deporla e di riaccoglierla di nuovo, in una totale consegna della sua vita al Padre: “Padre nelle tue mani depongo (paratìthemai) il mio spirito” (Lc 23,46).
Il modo di pascere del pastore buono non consiste in programmi, piani, opere, attività, iniziative, eventi … ma la “pastorale” di Gesù è la conoscenza intima di ciascuno di noi, che suscita a sua volta la conoscenza che noi abbiamo di lui: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre”, e dunque della stessa qualità di conoscenza che c’è tra lui e il Padre.
Quelle di Gesù sono le sue “pecore proprie”, private (idia) (Gv 10,12), come l’unica piccola pecora del povero nel racconto che il profeta Natan fa al re David, “essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo grembo, era per lui come un figlia” (2Sam 12,3). Grazie a Gesù buon pastore ci giunge la buona notizia che così precaria sia la nostra vita, così insignificante, così anonima possa a noi sembrare di fronte alle miliardi di altre vite, in un contesto dove spesso nessuno è più una conoscenza o un amico per qualcuno altro, noi abbiamo un luogo dove porre e deporre la nostra vita. Sappiamo dove essa fin da ora riposa: essa riposa in Gesù come Gesù riposa nel Padre, come nell’apologo di Natan l’unica pecora del povero dormiva sul suo grembo.
Goffredo Boselli