“Charitate vulneratus”
Gv 20,19-31 – II domenica dopo Pasqua (7 aprile 2024)
È la sera del giorno della risurrezione di Gesù e la sua comunità è riunita. È una comunità ferita, lacerata, una povera comunità di peccatori. Sono tristi e hanno paura perché il loro Rabbi non è più con loro. Il passato è pesante: è la storia del loro maestro ucciso appeso a una croce, maledetto da Dio e dagli uomini. Ma è anche la loro storia, la storia del tradimento dell’amico da parte di Giuda, del rinnegamento del fratello da parte di Pietro, dell’abbandono del maestro da parte dei discepoli. Forse, tacitamente, si rimproverano l’un l’altro la mancanza di saldezza, di coraggio, di fedeltà. Chiamati a formare la comunità di Gesù non hanno saputo confermarsi a vicenda nella prova e nella tribolazione. Eppure il Gesù risorto viene e sta “in mezzo” (en méron): non è un’indicazione spaziale ma esistenziale, viene al cuore della loro situazione personale e comunitaria. Invoca su di loro la pace mostrando le ferite, quasi che la pace fluisca da quelle piaghe che non sono solo il segno dei chiodi e della lancia di chi lo ha materialmente inchiodato alla croce, ma sono le ferite inferte da chi lo ha tradito, ripudiato, lasciato solo uccidendolo interiormente prima che lo condannassero a morte. Quelle ferite nel corpo gli sono state inflitte lungo tutta la sua vita, dal rifiuto dei suoi, dall’incomprensione di molti, dalla loro durezza di cuore, dal misconoscimento della sua persona e della sua missione, dall’abbandono dei suoi nell’ora della tribolazione quando si attendeva da loro conforto, consolazione, vicinanza e sostegno.
Gesù si manifesta con queste ferite che resteranno nel suo corpo per sempre perché sono i segni del mite che non ha apposto resistenza, che non ha reagito alla violenza. A chi lo ha percosso sulla guancia ha presentato anche l’altra, ha amato il nemico e pregato per il persecutore per essere figlio del Padre. L’amore grande per l’amico, il perdono non lo hanno reso invulnerabile al dolore e alla tribolazione. Anzi è l’amore a rendere vulnerabili, perché più si ama e più si è esposti alla sofferenza, alla compassione e il Risorto porta nel suo corpo le ferite dell’amore. Vulnerata sum a charitate, dice l’amata del Cantico dei Cantici, “sono ferita d’amore”. Qui è il Cristo charitate vulneratus (come canta un Alleluja gregoriano), ferito dall’amore, piagato nel suo corpo glorioso perché ha amato “fino alla fine” e ha voluto dimorare nell’amore.
L’ultima volta che i discepoli hanno visto il loro maestro era l’ora della fuga, dell’abbandono ma ora Gesù risorto viene lui stesso a cercarli: Gesù ha fede nei suoi, loro, invece faticano a credere. Non fanno fiducia a Pietro, a Giovanni, alle donne, ma Gesù vede nei cuori e da fede alla volontà di bene di ciascuno. Tommaso non sa fare fede ai suoi fratelli, fatica a credere alle cose nuove che Dio ha operato, fatica a credere che il passato di infedeltà e di rinnegamento sia stato cancellato da quell’amore che è più forte della morte. E il Signore che ha fatto fede ai suoi lo supplica: “Non essere incredulo ma credente”. E dove c’è la fede allora giunge anche il perdono e la pace.
Goffredo Boselli